La meteria dei sogni

di Paolo Coretti

Ho conosciuto artisti che facevano mistero delle loro opere e ne parlavano di malavoglia e in modo incomprensibile e poi si ritraevano negli antri della loro vita, che erano disadorni e disordinati. Ne ho conosciuti altri, confusi e disperati, che sembravano precipitati senza colpa tra le cose arruffate della loro bottega e altri ancora, arroganti, pieni di sé, che si pavoneggiavano nelle loro case opulente e non erano capaci di spiegare a un qualsiasi passante il perché della loro arte.

Con grande spirito di ricerca e sperimentazione, il Maestro fruliano Giulio Candussio trasforma emozioni, elabora ricordi, materializza pensieri. Profondo conoscitore dei risvolti della natura, i suoi mosaici, noti anche per la collaborazione con Bisazza, sono l’incarnazione di sogni e di memorie nitide, intense e ardenti.

Giulio Candussio non è fatto così. Non appartiene a queste – ahimè copiose – schiere di artisti, un po’ superuomini e un po’ vittime della loro pochezza. Ed è buona testimone la sua casa-studio di Spilimbergo, dalla quale emerge – e fin da subito – l’ordine dei materiali e degli strumenti allineati negli scaffali di legno chiaro, il rigore compositivo delle opere, il nitore della luce (quella fisica e quella del pensiero), la trasparenza del suo fare, quasi scientifico, senza segreti e senza inganni, erede di schiettezza antica e di profonda sincerità. Ed è grazie a questo suo essere profondamente sincero che Candussio evita di scivolare nel delirio creativo di tanti artisti. Mediante una sorta di autoanalisi introspettiva, assidua e priva di veli, indaga costantemente sui motivi che hanno dato origine alla sua sensibilità artistica e che hanno acceso quel fuoco che, in maniera implacabile, continua ad ardere e ad alimentare il processo di combustione che rende concreti i suoi pensieri.

Nella riscoperta di questi motivi, radicati solidamente nel suo bagaglio culturale e tanto importanti per la sua formazione, ritrova il suo essere uomo di montagna, che ha trascorso l’infanzia felice nei luoghi dove la natura si esprime – il più delle volte – con lunghi silenzi, che ha provato l’asprezza e la tortuosità dei sentieri in salita, che ha visto il greto scosceso dei torrenti e i boschi alti e che, affascinato da queste cose, ha potuto maturare la capacità di riflettere e di andare a fondo nella comprensione della natura e delle sue forme. E che, per questo, ha potuto apprezzare la fatica del salire e convincersi che essa è il mezzo più giusto per raggiungere i cieli più limpidi, che ha potuto accarezzare i sassi che rotolano nei torrenti e scoprire in essi i frammenti di una certa montagna che li ha abbandonati aguzzi e che l’acqua impetuosa ha saputo levigare e, ancora, che ha potuto comprendere la vita che si sprigiona nel bosco, che cresce negli alberi, ospita gli animali e dà lavoro agli uomini che abitano i luoghi in cui il bosco si dirada.

Con questi presupposti, è facile comprendere come le opere di Candussio siano fortemente legate alla sua vita vissuta. Ne siano il resto cosciente. Una sorta di autobiografia guidata dalle cose viste e dalle emozioni provate. Con il legno che lui dimostra di conoscere fino all’ultima fibra e che scolpisce scegliendone i pezzi con la cura dei suoi antenati, che lui ama definire artigiani di montagna, costruisce forme e paesaggi che appartengono al panorama che vive e resiste nella sua memoria e, in misura ridotta, realizza case, declivi, torrenti e alberi, tanti alberi, in sommità dei quali urlano fasci di fili di ferro, forgiati, battuti e contorti come fossero scossi e piegati dal vento, parola questa che, nella lingua friulana, viene detta semplicemente aiar, aria, proprio come quella che respiriamo.
Allo stesso modo, dimostra di conoscere profondamente la forza incandescente e barbarica del ferro, l’inquieta e a volte ingannevole trasparenza del vetro e l’apparente insormontabile durezza della pietra, ma è con il mosaico che meglio mostra la sua capacità espressiva ed è con questa disciplina, il cui linguaggio utilizza in modo speciale, che riesce a comporre un sistema capace di rappresentare quella natura e quelle figure che sono rimaste impresse nel fondo dei suoi occhi e che, di giorno in giorno, si rinnovano e mutano il loro vigore.

Si tratta di un sistema complesso di segni e di colori, tra loro opposti o complementari, mai statici e sempre in vibrazione, come l’erba quando si lascia pettinare dal vento, come le foglie del bosco, come le nuvole che si accumulano e che poi si disfano, come l’acqua dei torrenti che cambia colore di sasso in sasso, come il fuoco. Ed è con questo modo, quasi divisionista, di vedere le cose, mai lasciato al caso, che Candussio affronta il mosaico, disegnando prima gli andamenti e la dinamicità degli elementi, per poi farli diventare texture di segni e di colori, fatti di pietre, paste di vetro, smalti, variamente spezzettati e giustapposti in un rincorrersi di effetti cromatici così affascinanti da portare l’osservatore a convincersi che il mosaico non è solo superficie, non è solo pelle, ma è anche
e soprattutto carne, viva e pulsante, come sono vivi e pulsanti i ricordi, i pensieri, ma anche gli incubi e i sogni che, del mosaico, sono ispiratori.

Paolo Coretti

Paolo Coretti

Architetto, nato nel 1950 a Udine, si occupa del progetto di piccoli teatri, del restauro di edifici storici e del disegno di oggetti legati alla tradizione dell’artigianato italiano. Dal 2009 al 2014 ha promosso e curato il Premio Internazionale Mosaico & Architettura che si è tenuto a Pordenone.

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