Sovrane maestrie

di Chiara Maggioni

Nel secondo Quattrocento, l’atelier Miseroni seppe rispondere alla crescente richiesta di beni di lusso per la tavola con una proposta del tutto originale, una linea di creazioni che faceva rinascere le antiche lavorazioni glittiche coniugandole a inedite invenzioni formali. Il fasto delle corti europee del Cinquecento si esprimeva tanto nelle dimore splendidamente arricchite di opere d’arte che nelle sfarzose cerimonie pubbliche e nei ricevimenti. Un ruolo di primo piano era svolto dai banchetti, vera e propria celebrazione permanente dei regnanti e del loro entourage e dimostrazione di lusso e raffinatezza in occasione delle visite di sovrani stranieri o ambasciatori e altre personalità.

Unione di creatività e metodo, classicità e originalità, complessità tecnica e aggraziata bellezza: in uno dei più importanti cabinet d’arte e di curiosità al mondo, la Kunstkammer del Kunsthistorisches Museum di Vienna, capolavori rinascimentali di diversa concezione progettuale attestano la felice esperienza internazionale del talento italiano, ambito e ricercato dalle corti europee del Cinquecento.

Nell’atmosfera raccolta della Kunstkammer del Kunsthistorisches Museum di Vienna dialogano dalle rispettive vetrine – accendendo la penombra di riflessi d’oro e di colore – due proposte agli antipodi per concezione progettuale, pur se accomunate da un’eccezionale felicità di ideazione e maestria tecnica: il centrotavola destinato a contenere sale e pepe noto come Saliera di Benvenuto Cellini (1540-1543) e i vasi intagliati in pietre dure delle diverse generazioni dei Miseroni (attivi dal 1460 al 1684), milanesi di origine ma richiesti dalle principali corti d’Europa.

La contestualizzazione storica oltre che esistenziale della Saliera ci è fornita dallo stesso Cellini, che, consegnando ai posteri le proprie tumultuose vicende biografiche (Vita, 1558-1562), ripercorre gli anni irrequieti della giovinezza, fornendoci una mappa del suo apprendistato in diverse botteghe orafe della natìa Firenze, e poi a Siena, Bologna, Pisa e infine a Roma; qui l’incontro-chiave con il milanese Caradosso Foppa, orafo e medaglista della corte papale, del quale avrebbe preso il posto con Clemente VII Medici (1524-1534). Più ancora che le occasioni di apprendimento del bagaglio tecnico della professione, vediamo scorrere davanti ai nostri occhi le sue esperienze formative, sotto il segno dell’antico – i sarcofagi romani del Camposanto pisano, i quaderni con studi di antichità di Filippo Lippi – e dei tre grandi del Rinascimento: Leonardo e Michelangelo sui cartoni delle mai compiute Battaglie di Anghiari e di Cascina in Palazzo Vecchio a Firenze; ancora Michelangelo e Raffaello nelle campagne decorative per i Palazzi Vaticani. Di ritorno a Firenze (1535) aveva potuto studiare anche le tombe di Giuliano e Lorenzo de’ Medici nella Sagrestia Nuova di San Lorenzo e si era confermato nella devozione al “gran Michelagnolo”, «dal quale, e non mai da altri, io ho imparato tutto quel che io so» (Vita, ii, 21).

Tutte queste esperienze vengono portate a maturità nella Saliera, richiesta inizialmente dal cardinale Ippolito ii d’Este (1539), con la clausola «che arebbe voluto uscir dell’ordinario di quei che avean fatte saliere» (Vita, ii, 2). Cellini stesso ne descrive il progetto, del quale aveva predisposto un prototipo in cera: una complessa allegoria del Pianeta Terra che rivaleggiava con le grandi sintesi figurative che i maestri del Rinascimento avevano affidato alle “arti maggiori”. A Ippolito d’Este e ai suoi periti la realizzazione era apparsa però oltremodo difficoltosa e dai tempi di esecuzione imprevedibili: soltanto un sovrano come Francesco I di Francia, che stava accogliendo presso la propria corte i migliori artisti della nuova generazione – suggerisce il cardinale – avrebbe potuto farsi carico di una committenza di tale impegno.

Poi la rivelazione: il sovrano desiderava avere anche il Cellini presso di sé. Francesco I lo accolse effettivamente con calore, gli concesse la naturalizzazione francese, un castello a Parigi e la stessa rendita accordata in passato a Leonardo: il progetto poteva finalmente concretizzarsi.
Strepitose le qualità tecniche della Saliera: interamente costituita da lamine d’oro lavorate a cesello – e perciò sbalzata a mano libera e non prodotto di fusione come potrebbe far pensare, a una prima osservazione, la sua perfezione formale – è arricchita da smaglianti tocchi di smalto en ronde-bosse, che coordinano le due figure principali alla miriade di elementi allegorici minori che ricoprono la parte basamentale della composizione. Raffinata l’armonia dell’insieme, con la simmetria intrecciata delle figure, snelle ed elegantemente atteggiate, e la resa accurata e preziosa di ogni più piccolo dettaglio. Nettuno si erge sulle onde trainato da quattro cavalli marini, il tridente nella destra e un ciuffo di alghe nella sinistra; accanto a lui un galeone, con un mascherone grottesco a mo’ di polena, destinato a contenere il sale, nel mare una moltitudine di pesci e crostacei. La Terra siede sul dorso di un elefante, coperto da un drappo blu con i gigli di Francia, offre il proprio latte con la destra e con la sinistra porge fiori e frutti; accanto a lei un tempietto ionico destinato a contenere il pepe, sul cui attico è adagiata la figuretta dell’Abbondanza, mentre sul prato fitto di fiori e frutti si riconosce una salamandra, impresa di Francesco I.

La base in ebano ospita le personificazioni della ciclicità del Tempo e delle direzioni dello Spazio: le parti del giorno – l’Aurora, il Giorno, il Crepuscolo e la Notte –, che replicano l’archetipo michelangiolesco della Sagrestia Nuova, si alternano alle allegorie dei venti, tema antico ripreso da Raffaello nelle Logge Vaticane; tra gli altorilievi trofei di strumenti di lavoro legati al mondo marino e terrestre. La Saliera si pone dunque come sintesi delle esperienze del Rinascimento, compresa la volontà dell’artista di eternarsi attraverso un capolavoro che rappresentasse la massima espressione del proprio talento – sarà l’ultima prova del Cellini orafo, prima di dedicarsi alla scultura – e insieme intelligente ed empatica apertura al nuovo gusto internazionale che si andava elaborando nel cantiere di Fontainebleau. Davvero non stupisce che la Fondazione Cologni l’abbia individuata quale immagine-guida che ne esprime i valori fondanti e la missione.Tutt’altro percorso, invece, quello dell’atelier Miseroni, che seppe rispondere alla crescente richiesta di beni di lusso per la tavola con una proposta del tutto originale, una linea di creazioni che faceva rinascere le antiche lavorazioni glittiche coniugandole a inedite invenzioni formali, proposta che conquisterà in breve tempo le principali corti d’Europa.
Documentati a Milano come orafi nel secondo Quattrocento, acquisiscono fama internazionale come intagliatori di vasi in pietre dure con Gasparo e il fratello Girolamo. Negli anni Cinquanta e Sessanta Gasparo domina incontrastato le committenze di casa Medici, raccogliendo l’ammirazione entusiastica del Vasari: «E Gasparo e Girolamo Misuroni Milanesi intagliatori, de’ quali s’è visto vasi, e tazze di cristallo bellissime, e particolarmente n’hanno condotti per il Duca Cosimo due, che son miracolosi, oltre, che ha fatto in un pezzo di Elitropia un vaso di maravigliosa grandezza, e di mirabile intaglio; Così un vaso grande di lapis lazuli, che ne merita lode infinita» (Vite, iv, 1568). I vasi in eliotropio e in lapislazzuli per Cosimo I (Firenze, Museo degli Argenti, 1556; Museo di Storia Naturale, ca 1563) incarnano l’invenzione formale principe di Gasparo: la coppa a forma di conchiglia, fortemente asimmetrica, con un animale marino che vi si avvolge attorno quasi confondendosi con essa, in una sorta di ibridazione di forme. Lo stupefacente carattere metamorfico affascinò anche Massimiliano II d’Asburgo che negli anni Sessanta e Settanta richiese loro diversi pezzi (Vienna, Kunsthistorisches Museum).

Il nuovo imperatore Rodolfo II riuscì ad ingaggiare il figlio di Girolamo, Ottavio, poi raggiunto dai fratelli Giovanni Ambrogio, Aurelio e Alessandro, come intagliatore ufficiale della corte (1588), nel frattempo trasferita a Praga. Le creazioni di Ottavio si connotano per linee ancora più sinuose e per il trattamento morbido e sensuale delle superfici; le valorizzano montature in oro, smalti e gemme dell’orafo fiammingo Jan Vermeyen. Dal milieu culturale praghese deriva un nuovo interesse per i valori estetici dei materiali, in particolare per singolari pietre “autoctone” che il sovrano, appassionato cultore delle ricchezze mineralogiche dei suoi stati, faceva ricercare per collezionarle nella sua Wunderkammer. In sintonia con il gusto mitteleuropeo è anche l’introduzione di decori a rilievo dal profilo secco e metallico, del tutto dissociati dalle forme dei vasi stessi. Nelle opere della maturità, infine, le combinazioni/metamorfosi di elementi naturali sono abbandonate a favore di un’organicità astratta, mobile e indefinibile, come nel bacino in diaspro (Parigi, Louvre) creato per Rodolfo II in occasione del ventennale di lavoro al suo servizio, che era valso ai Miseroni l’elevazione al rango nobiliare. Con la morte del sovrano (1612), anche la fortuna dei vasi in pietre dure sarebbe tramontata spingendo l’atelier, ancora attivo a Praga per due generazioni, a specializzarsi in nuove tipologie di manufatti.

Chiara Maggioni

Chiara Maggioni

Storico dell’arte, insegna Storia dell’Oreficeria alla Scuola di Specializzazione in Beni Storico-Artistici dell’Università Cattolica di Milano. È autrice di pubblicazioni, progetti di ricerca di taglio multidisciplinare, interventi di divulgazione scientifica e di valorizzazione del patrimonio diffuso.

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