Ombrosa quiete

di Alberto Mattioli

Forse iniziare con un ricordo personale è irrituale o perfino sconveniente, ma non posso farne a meno. Correva l’anno 1996 e al Teatro Comunale di Bologna si rappresentava Madama Butterfly di Puccini con la regia di Robert Wilson. Lo spettacolo in realtà non era nuovo, ma si trattava di un’importazione dall’Opéra di Parigi, dove aveva debuttato tre anni prima. Ma io non l’avevo visto, nemmeno in video, né ne avevo mai sentito parlare.

Nel 1993, la direzione artistica di Robert Wilson trasforma l’opera “Madama Butterfly” in un universo ipnotico che crea un nuovo rapporto con la scena, abbattendo il tempo e lo spazio fino a diventare un viaggio eterno nella bellezza.

Fu una rivelazione, anzi un felice choc. Era un Giappone non descritto e nemmeno evocato, semmai condensato, depurato, distillato alla sua pura essenza, dove la forma diventava sostanza e viceversa, apparentemente un grande vuoto ma, in realtà, pieno di senso, con le luci (quelle luci!) che non si limitavano a definire spazi e situazioni, semmai li raccontavano senza che diventassero mai “realisti”. E tuttavia, misteriosamente, questo Giappone risultava più autentico di quello “vero”, dalla celebre (con il senno e le riprese di poi) sedia “dell’attesa”, in lacca nera e con una sola gamba, ai magnifici costumi-scultura di Frida Parmeggiani.

E tutto ciò nell’opera di Puccini più sfigurata dalla cosiddetta tradizione, quella Butterfly dove una violenza quasi metafisica (un’opera tutta sull’attesa, proprio, dove l’azione è in realtà la sua assenza) viene di solito ridotta e involgarita a sentimentalismo piccolo borghese, e dunque tradotta, anzi tradita, in un’estetica da servizi da tè. Nemmeno il Giappone “reale”, men che meno la sua essenza profonda, ma proprio la cartolina a uso dell’occidentale in visita guidata. Per inciso, riproponendo quel colonialismo becero da turista sessuale bianco che compra la ragazzina con cui spassarsela fra una tappa e l’altra del tour, contro il quale l’opera di Puccini si scaglia con una lucidità ferita e dolente che ci appare, a posteriori, profetica.

Tutto questo spariva di colpo, davanti a questa eleganza astratta e traslucida, questi movimenti ritualizzati, calcolatissimi, calibratissimi, lentissimi (risolvendo finalmente anche il problema numero uno dell’opera lirica, il canto che allunga smisuratamente il tempo dell’azione) e che tuttavia non davano un risultato gelido, anzi colpivano molto di più delle care vecchie movenze del Puccini prêt-à-pleurer. Non ho mai capito come si possa parlare di minimalismo in rapporto a Bob Wilson: o meglio, per la soppressione radicale di ciaffi e attrezzistica e color locale da ristorante “tipico”, forse sì; per la ricchezza di idee e la potenza emozionale che suscita, certamente no.

Poi Wilson raccontò del suo primo impatto con il Giappone. Tutto risale a un viaggio alla fine degli Anni Settanta, grazie a una sovvenzione del Rockfeller Found, in compagnia di un’altra borsista di belle speranze che si chiamava Susan Sontag. “Dopo un mese in Giappone la mia vita è cambiata per sempre”, dice oggi Wilson. Ed elenca gli incontri decisivi, perché poi una cultura, anche una grande cultura, cammina pur sempre sulle gambe degli uomini: Hideo Kanze, discendente di una dinastia di attori del teatro Nō, Tamasabura, una star del Kabuki, Hiroshi Teshigahara, filmaker e maestro della composizione floreale, e così via. «Prima di allora non avevo mai conosciuto il teatro giapponese, ma è stata un conferma di tutto quello che già stavo facendo nel mio lavoro,» ricorda Wilson. Nel 1993, quando mise in scena quella Butterfly che gli avrebbe cambiato la vita, e per la verità non solo a lui, all’elenco si aggiunse la coreografa Suzushi Hanayagi, uscita da una stirpe teatrale pluricentenaria, ancorata nella tradizione del Nō, del Kabuki e del Bunraku (in un mondo, quello teatrale, dove il passaggio dei saperi e la trasmissione della tradizione – quella vera – si fanno ancora manualmente, a bottega con gli anziani, nel contatto fra le generazioni, e per la verità non solo in Giappone).

Da allora, di spettacoli di Wilson, di prosa e d’opera, ne ho visti molti. Ricordo un Ring all’Opernhaus di Zurigo, dove sembrava materializzarsi quel “teatro invisibile” eppure coinvolgente e sconvolgente richiesto da Wagner, deluso della modestia delle soluzioni scenotecniche e illusionistiche della sua epoca, o i Monteverdi alla Scala, specie la celebrazione cortigiana e le metafore neoplatoniche dell’Orfeo trasformati in un rito ancestrale, in un’Arcadia di squisita, immota bellezza. Ma alla fine si torna sempre lì, a quella Butterfly tuttora nel repertorio dell’Opéra dove la si è poi vista e rivista, che riempie ogni volta di senso la sua stasi apparente, la sua concentrazione formale, la sua rastremazione iconica. Forse è questo il classico: ripensare continuamente l’esistente proiettando il passato nel futuro. Quella Butterfly evocata da questa mostra veneziana è un classico perché si potrà continuare a ripeterla e ogni volta resterà sempre se stessa e ogni volta diventerà un’altra. Quod erat in votis del giovane principiante che, in una sera del 1996 (e a Bologna poi, che non è esattamente Los Angeles), si faceva catturare per la prima volta dall’arte spiazzante e affascinante di Robert Wilson.

Alberto Mattioli

Alberto Mattioli

Alberto Mattioli è giornalista della Stampa per la quale è stato redattore della Cultura, caposervizio agli Spettacoli e corrispondente da Parigi. Esperto d’opera, collabora con i maggiori teatri italiani e stranieri e con le principali riviste specializzate. Ha scritto sette libri, due libretti e alcune migliaia di articoli.

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