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Il senso del fare

Testo di Stefano Micelli

L’analisi delle dinamiche del settore immobiliare ha evidenziato come una larga fascia della popolazione, soprattutto negli Stati Uniti, avesse cominciato a pensare che la finanza – non il lavoro – potesse rappresentare l’origine della ricchezza delle famiglie. Fra le ragioni principali del successo del libro di Richard Sennett, L’uomo artigiano, c’era la determinazione con cui il sociologo americano guardava al lavoro artigiano come vero e proprio antidoto rispetto a una società completamente finanziarizzata. Richard Sennett ha posto per primo una questione di carattere generale: il lavoro artigiano non si distingue solo per il suo contributo all’economia di alcuni settori – ad esempio quello dei prodotti di alta qualità – ma soprattutto per la sua capacità di promuovere caratteristiche della persona che consentono alle comunità di riscoprire legami durevoli e un senso di marcia comune.

Ogni crisi rappresenta un’opportunità per riflettere sulla società e sui presupposti del vivere in comune. All’indomani delle vicende del 2008 che hanno segnato l’inizio della crisi finanziaria, ci siamo interrogati su lavoro e ricchezza.

Anche la crisi innescata dal Covid 19 ha messo in moto una riflessione profonda sul ruolo e sul valore del lavoro nelle società avanzate. Il ragionamento si è sviluppato su più fronti. Una prima considerazione riguarda il nodo delle remunerazioni. In questi due anni ci siamo resi conto che molti lavori non sono pagati a sufficienza nonostante il loro effettivo contributo alla società. Queste considerazioni valgono, ad esempio, per i mestieri della cura, preziosi durante la pandemia ma poco riconosciuti, dal punto di vista economico, rispetto ad altre professionalità.

Un secondo ordine di considerazioni riguarda il significato profondo del lavoro. La crisi pandemica ha costretto una larga parte della popolazione a lavorare da casa. In molti hanno profittato dello smart working per riflettere sulla propria condizione lavorativa e sul senso da attribuire al proprio impegno quotidiano. Questo momento di ripensamento collettivo ha generato conseguenze inaspettate soprattutto fra i tanti impiegati nella cosiddetta gig-economy (l’economia dei lavoretti). In molti hanno dato le dimissioni dal proprio posto di lavoro in attesa di trovare qualcosa di più interessante e significativo. Rider delle piattaforme della distribuzione del cibo a domicilio, dipendenti delle grandi catene distributive, operatori della filiera logistica del commercio elettronico sono alcuni dei profili che hanno dato le dimissioni convinti della possibilità di trovare occupazioni migliori. Il fenomeno della “Great Resignation”, di dimissioni collettive su larga scala, parla di un mondo che rifiuta la logica del lavoro standardizzato, regolato da procedure e algoritmi. In molti chiedono di poter esprimere la propria personalità sul lavoro, domandano un margine di autonomia per operare scelte consapevoli, rivendicano uno spazio di socialità autentica rispetto ai destinatari del proprio impegno.

Dieci anni fa la crisi ha posto a confronto un’economia fondata sul lavoro e un’economia centrata sulla finanza. All’indomani della crisi pandemica, la contrapposizione si gioca piuttosto tra lavori “cattivi” e lavori “buoni”, come sono stati definiti da due famosi economisti, Dani Rodrik e Charles Sabel. Il lavoro artigiano per molte ragioni rappresenta una forma di lavoro buono, a tutto tondo. La domanda, sempre più visibile e consapevole, di “lavoro buono” è un monito alle imprese e alla politica affinché si impegnino a trovare il modo di avviare un cambiamento di direzione generalizzato. Formazione, incentivi fiscali, offerta di spazi lavorativi a costi contenuti, sostegno all’imprenditorialità sono alcune fra le leve che manager e amministratori della cosa pubblica hanno a disposizione per favorire una transizione verso una nuova idea di lavoro e di vivere in comune. Si tratta di una domanda collettiva che non può più essere aggirata.

Stefano Micelli

Stefano Micelli

Insegna International Management all'Università Ca' Foscari di Venezia. La sua attività si concentra sulle ragioni del successo della manifattura italiana sui mercati internazionali mettendo a fuoco le connessioni fra innovazione tecnologica, design e saper fare della tradizione.

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