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Le arti perdute e più volte ritrovate

Testo di Dario Scodeller

«Non sappiamo più distinguere una ceramica da una porcellana, un vetro da un cristallo; perdere le arti significa anche non essere più capaci di conferire qualità agli oggetti dell’ambiente che ci circonda». Così Ugo La Pietra concludeva, nel settembre dello scorso anno, una conversazione alla Fondazione Cini a Venezia. Le storie del design, nel raccontare le innumerevoli iniziative di “recupero” delle arti susseguitesi nell’ultimo secolo e mezzo – dalle Arts & Crafts al New Craft – non rispondono quasi mai alla domanda: quando abbiamo iniziato a “perdere” le arti?

La progressiva, preoccupante svalutazione delle arti applicate ha portato con sé anche una certa indifferenza o inconsapevolezza nei confronti delle tecniche, dei materiali e dei mestieri necessari a produrre, creare, sviluppare.
Ma proprio all’intelligente lavoro delle mani occorre oggi guardare con interesse e competenza per tornare all’originaria unità, etimologica e di senso, in cui ars è téchne.

Nel 1923, gli ospiti giunti da tutta Europa per la prima mostra del Bauhaus, trovarono ad accoglierli alla stazione di Weimar uno striscione voluto da Walter Gropius con la scritta “arte e tecnica, una nuova unità”. Nell’antichità classica, infatti, queste due parole possedevano un significato comune: sia il termine latino ars che il greco téchne indicavano il saper fare con destrezza e abilità, in senso esteso, dall’ostetrica al ceramista, dal medico al fabbro.

Nell’Europa medievale, l’apprendimento delle arti si organizza con regole, canoni e prove d’ammissione (capolavoro o cheuf d’œuvre), per garantire costanza nella qualità dei prodotti. Le corporazioni sono contemporaneamente associazioni di categoria, sindacati e scuole, dove l’arte viene insegnata come mestiere. Nel Livre des métiers (1268) Étienne Boileau enumera a Parigi ben 101 mestieri, ciascuno con un proprio statuto. Fino al Rinascimento, le arti (maggiori e minori) costituiscono ancora un sistema integrato: gli artigiani delle pietre dure, del cristallo, delle porcellane, gli orefici, gli incisori, i tessitori d’arazzi, i fontanieri che realizzano automi idraulici, i cartografi, godono della medesima considerazione sociale di pittori e scultori.

Una frattura importante nel sistema delle arti viene generata dalla polemica anti-corporativa delle Accademie nei confronti delle botteghe. È il 1539 quando Paolo III Farnese concede agli scultori romani – che confluiranno progressivamente nell’Accademia di San Luca – di potersi sottrarre dal controllo delle corporazioni. Anche l’Académie royale (1648) nasce principalmente come alternativa ai vincoli imposti dalle communauté des maistres. Prevale il principio dell’ideazione contro la dimensione sperimentale delle botteghe, la conseguenza sarà un generale distacco della cultura artistocratica nei confronti dell’aspetto tecnico delle arti: dai trattati scompaiono progressivamente le descrizioni dei procedimenti.

Le arti e i mestieri ricompaiono, a metà Settecento, nelle pagine e nelle tavole dell’Encyclopédie (Dictionnaire raisonné des sciences, des arts et des métiers), ma le dettagliate descrizioni dei procedimenti e i disegni dei laboratori di manufacture documentano un mondo che sta per scomparire. Ufficialmente abolite dalla Rivoluzione francese nel 1791, le arti si dissolvono con l’avvento della libertà d’industria e di commercio sancita da Napoleone, con cui la Francia rincorre in senso liberista quella prima rivoluzione industriale che in Inghilterra è già un fatto compiuto.

Nell’Ottocento inizia il “recupero” romantico delle arti e dei mestieri d’arte. John Ruskin, e con lui William Morris, invita a riprendere ad usare le mani, a far rivivere le tecniche perdute. «Non si può essere considerati dei veri poeti – affermava Morris – se non si è capaci con una mano di scrivere con la penna, mentre con l’altra si tesse col telaio». Va ricordato che la nascita delle Arts & Crafts, come sistema di laboratori diffusi nelle campagne, coincide con la prima acuta crisi del capitalismo industriale: illuminante in tal senso The Craftsmanship in Competitive Industry di Charles Robert Ashbee.

Ma nella Vienna dei primi anni del Novecento è già polemica aperta se debba essere il progetto a rianimare le arti (come indicava Josef Hoffmann con la sua Wiener Werkstätte) o se, invece, come affermava Adolf Loos (celebre la sua storia del maestro sellaio), il vero design fosse quello degli artigiani, nel cui lavoro in seno alla tradizione egli intravedeva i principi fondativi del moderno. Anche il Bauhaus nasceva, in fondo, nel 1919, dalle premesse romantiche di Morris. Nel celebrarne lo scorso anno il centenario della fondazione come prima scuola di design europea, è passato in secondo piano il fatto che fosse stata inizialmente concepita da Gropius come scuola per maestri artigiani, nel tentativo di unire cultura del progetto e sperimentazione nei laboratori di pietra, legno, ferro, tessuto, vetro, ceramica.

L’Italia ha una sua storia particolare di recuperi e distruzioni. Alla Società Umanitaria dobbiamo le scuole d’arti e mestieri, la prima Università delle arti decorative di Monza e anche la stessa Triennale; a Gio Ponti l’azione propulsiva nel far convivere artigianato e design come fondamento qualificante del Made in Italy, al dimenticato Carlo Ludovico Ragghianti
il superamento da parte della critica d’arte del pregiudizio sulle arti minori, in cui egli vedeva «la più autentica e perfetta espressione d’arte di molti secoli». Abbiamo perso molto, purtroppo, delle arti e del nostro saper fare nel dopoguerra. «Si parla di ritorno all’artigianato – scriveva Vittorio Gregotti nel 1983 – là dove il mestiere e l’abilità manuale hanno perso negli ultimi vent’anni più di quanto abbiano perso negli ultimi tre secoli».

Nel suo capolavoro Dalle arti minori all’industrial design (1972), Ferdinando Bologna ci ricorda che la svalutazione e la rivalutazione delle arti minori sono andate storicamente
di pari passo con la svalutazione e la rivalutazione del lavoro umano nell’arte. Bisogna dunque forse riconsegnare al lavoro, alla sua dimensione tecnico operativa, il suo valore sperimentale e formativo. Lasciamo che gli studenti di design usino le mani nei laboratori, taglino, incollino, fresino, incidano, fondano, stampino. Perché mai tutto ciò non può conciliarsi con un futuro digitale e una sana cultura umanistica?

Dario Scodeller

Dario Scodeller

Architetto, storico e critico del design, è professore associato presso il Dipartimento di Architettura dell’Università di Ferrara, dove dirige il Corso di laurea triennale in Design. Ha pubblicato diverse monografie e numerosi saggi sul design, la sua storia e la sua teoria.

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