Ficcanaso di manufatti

di Andrea Sinigaglia

fotografie di Peter Elovich

È innanzitutto un’esperienza olfattiva quella di chi ha il privilegio di andare oltre al liminare. Oltre il terminale, chi ha potuto accedere, anche una sola volta nella sua vita, al luogo della produzione, della realizzazione ovvero della facitura, porta con sé, in primis, una memoria del naso. Sempre i luoghi del fare hanno un sentore, può essere un profumo, può essere un odore o entrambi ma resta il fatto che l’essenza della manifattura ne è l’essenza.

Elogio della convivialità, dove l’esplorazione olfattiva svela la manifattura: lo chef Paolo Lopriore, uno dei grandi protagonisti della scena gastronomica contemporanea, propone una cucina rivoluzionaria ma che riflette l’identità naturale del territorio.

Fragranze di olio di meccanismi o di motori, fragranze di materiali che mutano forma o consistenza, polvere di lavorazione. Non è tanto un’esigenza intellettuale quella che ci spinge ad andare oltre e ad andare dentro al processo produttivo, bensì un’esigenza corporale, direi quasi animale. È il voler assistere a ciò che accade non soddisfatti di ricevere un già accaduto, per quanto perfetto esso possa essere. È voler appunto partecipare di una gestazione. Ciò che accade ha sempre un odore, talvolta una miscela di odori, quelli esterni a noi e quelli dei nostri sentimenti partecipanti. È per questo che tale esplorazione degli ingranaggi è affidata al più ancestrale dei nostri sensi e lì rimane impressa, misteriosamente.

Non a caso si chiama mistery il più emblematico degli strumenti che costituiscono un trio nato dalla concezione di Paolo Lopriore, un grande cuoco, il più viscerale dell’Italia attuale, e di Andrea Salvetti, compianto artista, scultore e designer. Farci entrare nella fase generativa del manufatto come dimensione estetica. Questo è quello che s’agitava nell’incontro tra Lopriore e Salvetti fin dal primo momento e che ci ha portato all’estremo di un lungo itinerario della tradizione ristorativa dell’ultimo secolo. All’origine, infatti, tutto era segreto in cucina, celato, poi tutto si fece concluso nel piatto, in seguito si misero vetri tra cuoco e ospite per avere uno squarcio sul fare e infine quella parete di cristallo si decise di abbatterla. Ma qui stiamo parlando di altro ancora, di portare la cucina in sala, di fare musica da camera, di togliere la carena, di vivere un labo, insomma di compartecipare. La tavola conviviale. Ed è subito immersione. Strappati dalla nostra condizione di puri spettatori veniamo coinvolti nel momento funzionale. Ci sono vapore e fumo e calore. E poi ci sono le mani che fanno. C’è l’acciaio, la ceramica e il legno. Sono tre dimensioni belle da vedere, da toccare, da semplicemente attendere, ascoltando. Questa è la giostra che il cuoco e l’artista manovrano sapientemente e noi definiamo solo quanto partecipare, ma è impossibile astenersi. Il cuoco che fa con gestualità sapiente. L’artista che riempie il tempo e lo spazio della sua assenza, delegando tutto ai materiali, alle forme e al pensiero intrigante di lui. Una piastra con campana che si chiama mistery, una vaporiera in ceramica a forma di uovo e un affumicatore a piani cilindrici di legno.

Come vuole il gergo della contemporaneità artistica due su tre di questi strumenti sono senza titolo, anzi ormai e per sempre si chiamano proprio senza titolo. C’è in questo triangolo il nord e il sud dell’Italia e del mondo, c’è anche l’occidente e l’oriente. C’è un pezzo di cucina che atterra sul tavolo della sala ma contestualmente sfonda un muro. C’è la sorpresa, l’ironia. C’è lo sporcarsi le mani e lo stareattentianonscottarsi. C’è dunque anche la serietà, che come diceva Chesterton non è una virtù poiché è antireligiosa. Mentre questa esperienza è propriamente religiosa nel suo profondo etimo, ha a che fare con tutto ciò che concerne il raccogliere, il legare, il mettere in contatto ma soprattutto il venerare che è la punta estrema del rispettare. Il cuoco di Appiano Gentile (Como), figlio d’arte di Gualtiero Marchesi e l’artista di Lucca che vogliono ribaltare la prospettiva, azzerare la distanza. Arte e mestiere, a dialogo bellezza e gusto. E poi può anche capitare che passi una bambina, che si affacci alle grandi finestre del ristorante per vedere un uomo vestito di bianco che fa vapore e muove le dita intelligenti ed è chino sugli oggetti: e dentro gli strumenti ci mette il naso appuntito e gli occhi e la faccia tutta, e da quelle strane macchine escono nuvolette di vapore e nuvolette di fumo, ma per lei che guarda sono innanzitutto nuvolette. Quelle sono macchine per fare le nuvole e la magia che vive lei è il massimo premio che cuoco e artista ambiscano dare e ricevere, anche quando si rivolgono a noi adulti. Ma in questa giostra il fumo e il vapore e lo sfrigolio svaniscono sempre presto rispetto all’ipnotica atmosfera a cui ci inducono, troppo presto passano oltre prematuramente: come hai fatto tu, del resto, Andrea.

Andrea Sinigaglia

Andrea Sinigaglia

Laureato in Lettere alla Cattolica di Milano, ha conseguito un Master in Cultura dell’Alimentazione a Bologna e un MBA presso il MIP. Ha pubblicato: La cucina Piacentina (Tarka, 2016), Gusto Italiano (Plan, 2012) e Il vignaiolo. Mestiere d’arte (Il Saggiatore, 2006). Dal 2004 insegna Storia della Cucina italiana presso ALMA, dove, dal 2013, è direttore generale

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